Nel cuore della fisica c’è un’ipotesi fortunata. Era un’ipotesi incredibilmente buona, che rimane solida di fronte al tempo e agli esperimenti, ed è ora un principio fondamentale della meccanica quantistica.
Si chiama regola di Born, e mentre viene usata per le previsioni, nessuno capisce veramente come funziona. Ma un nuovo audace tentativo di riscriverla potrebbe essere la svolta che stavamo cercando per comprenderla finalmente in pieno.
I fisici dell’University College di Londra Lluís Masanes e Thomas Galley hanno collaborato con Markus Müller dell’Accademia Austriaca delle Scienze per trovare un nuovo modo di descrivere questa legge fondamentale della fisica.
Non sono i primi a cercare verità più profonde su questo più sbalorditivo dei principi quantistici. E, siamo onesti, non saranno gli ultimi. Ma se c’è una soluzione da trovare, probabilmente richiederà un approccio unico come il loro.
Prima di tutto, per capire cosa c’è di così speciale nella regola di Born, dobbiamo fare un piccolo passo indietro.
È diventato un cliché dire che la meccanica quantistica è strana. Con gatti che sono allo stesso tempo vivi e morti e particelle che teletrasportano informazioni attraverso lo spazio e il tempo, siamo abituati a vedere i sotterranei della fisica come uno spettacolo di magia.
Grandi nomi come Schrödinger, Heisenberg ed Einstein tendono ad ottenere la gloria, ma è il fisico e matematico tedesco Max Born che merita veramente il credito per il monumentale mal di testa che la meccanica quantistica ci consegna.
Per capire il suo contributo, dobbiamo solo guardare il casino che i fisici si trovarono all’inizio degli anni 20. La struttura dell’atomo era stata da poco rivelata essere costituita da un nucleo denso e caricato positivamente circondato da particelle più piccole caricate negativamente.
Perché l’intero sistema non collassasse era la grande domanda che si poneva, finché il fisico francese Louis de Broglie se ne uscì con un audace suggerimento – proprio come le onde luminose avevano una natura particellare, quegli elettroni negativi potevano rimanere in piedi se erano anch’essi ondulatori.
La dualità della luce era già abbastanza difficile da digerire. Ma descrivere la materia che sembra solida come se fosse un’onda sull’oceano era semplicemente folle. Eppure, gli esperimenti dimostrarono che si trattava di un buon abbinamento.
Allora, nel 1926, Born se ne uscì con un semplice suggerimento – traendo spunto dalla matematica dei suoi colleghi, mostrò come queste onde riflettevano la probabilità e arrivò a una regola che univa le osservazioni con le misure del caso. Questa regola permette ai fisici di predire la posizione delle particelle negli esperimenti, usando le probabilità riflesse dalle ampiezze di queste funzioni d’onda.
Ma la regola di Born non era basata su qualche assioma di base, o verità più profonde della natura. In una conferenza che tenne quando ricevette il premio Nobel per la fisica per il suo lavoro nel 1954, Born spiegò il momento “aha!” emerso dal lavoro di Einstein.
“Aveva cercato di rendere comprensibile la dualità tra particelle – quanti di luce o fotoni – e onde interpretando il quadrato delle ampiezze delle onde ottiche come densità di probabilità per il verificarsi dei fotoni”, disse Born.
Era un’ipotesi ispirata, e anche precisa. Ma non c’erano assiomi di base, nessuna legge fondamentale che portasse Born alla sua conclusione. Era puramente predittiva, non diceva nulla sui principi più profondi che trasformano una moltitudine di possibilità in una singola attualità.
Einstein odiava le implicazioni, affermando notoriamente che Dio non gioca a dadi, e sentiva che la meccanica quantistica era una teoria incompleta che aspettava nuovi pezzi per rendere il quadro chiaro.
Quasi un secolo dopo, quei pezzi sono più sfuggenti che mai. E la regola di Born si trova ancora al centro di essa, predicendo silenziosamente senza rivelare il segreto della sua scelta.
Quello che serve è una riformulazione della famosa legge che mantenga il suo potere di predizione mentre accenna a ulteriori verità. Così Masanes, Galley e Muller hanno rielaborato la formulazione della regola sulla base di una manciata di presupposti apparentemente banali.
In primo luogo, hanno sottolineato che gli stati quantistici sono descritti secondo misure di grandezza e direzione.
In secondo luogo, hanno mostrato come questi stati possono essere descritti secondo ciò che è noto come unitarietà. Questo gergo si riferisce alle informazioni che collegano i punti di inizio e fine di un processo. (Per usare una rozza analogia, potremmo non sapere come siamo arrivati a casa dal bar, ma il metodo che ci ha portato lì descrive anche il percorso di ritorno.)
In seguito, hanno ipotizzato che, comunque si scelga di raggruppare le parti di un sistema quantistico complesso, non dovrebbe fare differenza per la misurazione dello stato finale. Dividere un arcobaleno in sette colori è una scelta che facciamo in funzione del contesto; la natura non si preoccupa sempre delle divisioni convenienti.
Infine, hanno affermato che la misura di uno stato quantico è unica. Dopo tutto, una miriade di possibilità finisce in una risposta solida.
Da questi semplici punti di partenza, il trio ha costruito logicamente fino alla regola di Born. Il loro lavoro è a disposizione di chiunque per la lettura sul sito web arxiv.org, ma sta già scatenando la discussione.
Non è una soluzione in sé, si badi bene, poiché non riesce a spiegare perché un’onda di possibilità crolli nella realtà che osserviamo.
Invece, mostra come le ipotesi fondamentali possono dare origine alla stessa legge, fornendo una nuova prospettiva su come affrontare il problema.
Per ora, Dio lancia ancora quei dadi in modo corretto. Forse è così che lo beccheremo a barare.