PJ Harvey

PJ Harvey, per esteso Polly Jean Harvey, (nata il 9 ottobre 1969 a Corscombe, vicino a Yeovil, Inghilterra), cantautrice e chitarrista britannica, le cui registrazioni e concerti di intensità mitica e fanatica hanno stabilito nuovi standard per le donne nel rock.

Harvey, nata da genitori controculturali nell’Inghilterra rurale, sembra essere cresciuta con un senso del rock come semplice altra forza elementare all’interno del paesaggio. “Sheela-na-gig”, per esempio, un singolo del suo primo album, Dry (1992), prendeva come immagine centrale le incisioni esibizioniste femminili con genitali aperti che si trovano in tutta l’Irlanda e il Regno Unito, le cui origini sono oggetto di dibattito. La canzone, come molte altre della Harvey, tratta la sessualità femminile come una forza devastante e tormentata, ma, invece di fare la vittima, lei incarna teatralmente le sue ossessioni, le equipara alla minaccia seducente del rock e del blues, e si costruisce un archetipo. In altre mani – per esempio quelle del rocker postpunk Nick Cave, una delle sue maggiori influenze – queste mosse correrebbero il rischio dell’assurdo. Ma la Harvey controlla la sua auto-presentazione con straordinaria cura: una figura scheletrica con labbra arrossate e un sorriso enigmatico, usa una dizione lucida anche se la narrazione la porta dal mormorio stuzzicante all’urlo strozzato.

Inizialmente, il nome PJ Harvey si riferiva non solo alla Harvey ma al trio che formava con il bassista Stephen Vaughan (nato il 22 giugno 1962, Wolverhampton) e il batterista Robert Ellis (nato il 13 febbraio 1962, Bristol). Sotto la supervisione tecnica di Steve Albini (la cui reputazione di estremista del suono si basava sui suoi gruppi, Big Black e Shellac, e sulla sua produzione di gruppi come i Pixies e i Nirvana), registrarono l’album più impegnativo della Harvey, Rid of Me (1993); una versione più morbida di parte dello stesso materiale, 4-Track Demos, uscì più tardi lo stesso anno. Dopo il tour di supporto a queste uscite, Ellis e Vaughan lasciarono PJ Harvey, che divenne il moniker della Harvey come artista solista. To Bring You My Love (1995) presentava una band allargata e arrangiamenti più accessibili. Quando la Harvey andò in tour con questo materiale, mise da parte la sua chitarra robusta per una presentazione più teatrale e fu accolta con il tipo di riconoscimenti di culto che Bruce Springsteen aveva generato due decenni prima. Eppure Harvey non riuscì a capitalizzare l’entusiasmo. Su Dance Hall at Louse Point (1996), una collaborazione con John Parish, che era stato suo compagno di band negli Automatic Dlamini quando erano adolescenti, rinunciò al controllo della musica, che, molto più dei suoi testi, si rivelò essere la sua principale forza.

Il successivo album di PJ Harvey, Is This Desire? (1998), era deliberatamente sommesso, un esercizio di canzone d’arte. Nel 2000, tuttavia, la Harvey uscì con Stories from the City, Stories from the Sea, un ritorno al rock anthemico con aspirazioni pop e un’improbabile svolta: per la prima volta, Polly Jean Harvey cantava di amore e sesso con piena soddisfazione. Quell’album le valse il primo Mercury Prize mai assegnato a una donna. Seguirono altre collaborazioni con altri artisti, in particolare con gli hard rockers Queens of the Stone Age, nel cui side project Desert Session, Vol. 9-10 (2003) fu una presenza importante. Nel 2004 la Harvey pubblicò l’autoprodotto Uh Huh Her, in cui suonò tutti gli strumenti tranne le percussioni e continuò il suo unico discorso sull’amore, che, secondo tutte le indicazioni, si era di nuovo messo male per lei. Nel 2006 le performance radiofoniche dal vivo della Harvey per il famoso disc jockey e tastemaker alternativo John Peel furono pubblicate come The Peel Sessions, 1991-2004. L’album della Harvey del 2007, White Chalk, fu un ritorno alla canzone d’autore: era cantato quasi interamente in falsetto e accompagnato dal pianoforte (uno strumento che la Harvey conosceva appena) piuttosto che dalla chitarra. Raramente un rocker così capace di lasciarsi andare era stato anche così determinato a trattenersi.

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Harvey ha seguito White Chalk con un’altra collaborazione con Parish: l’ampio A Woman a Man Walked By (2009). Dal ringhio conflittuale della title track dell’album ai versi parlati dolcemente di “Cracks in the Canvas”, la Harvey ha dimostrato ancora una volta che la sua voce è uno strumento capace di trasmettere una gamma emotiva drammatica. In seguito è emersa con Let England Shake (2011), un album dall’influenza folk che alludeva alle battaglie della prima guerra mondiale come parte di un complesso ritratto del suo rapporto con la sua patria. Nel 2011 Let England Shake ha fatto guadagnare alla Harvey il suo secondo Mercury Prize, rendendola la prima vincitrice per due volte di quel premio. In The Hope Six Demolition Project (2016) si è concentrata su quelle che vede come ingiustizie made in USA, che ha ricercato girando il Kosovo, l’Afghanistan e parti di Washington, D.C.; l’album è stato registrato in pubblico dietro un vetro a senso unico come parte di un’installazione artistica. Il regista teatrale belga Ivo van Hove ha poi scelto Harvey per creare la musica per il suo adattamento teatrale londinese del 2019 del film classico All About Eve, e anche l’album della colonna sonora, in gran parte strumentale, è apparso quell’anno. Nel 2013 Harvey è stato nominato membro dell’Ordine dell’Impero Britannico (MBE).

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